Articolo | Riccardo Giorgio Zuffo: futuro e lavoro, quale scenario? di Cecilia Cantadore
Riccardo Giorgio Zuffo: futuro e lavoro, quale scenario? | intervista di Cecilia Cantadore a Riccardo Giorgio Zuffo, AD e Direttore scientifico di Telema
Uscita su MomentoFinanza il 10 novembre 2020
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Il mondo del lavoro sta cambiando velocemente. In Italia la crisi scatenata dalla pandemia di Covid-19 ha colpito tutte le categorie. Il dibattito legato al blocco dei licenziamenti è acceso, si discute della necessità di prolungarlo o meno, e fino a quando. Sono preoccupanti le stime sull’occupazione, mentre allo stesso tempo mancano competenze specifiche in alcuni settori in crescita. Quale scenario si prospetta per il mondo del lavoro? Quali saranno le conseguenze della pandemia? MomentoFinanza.it ha intervistato Riccardo Giorgio Zuffo, Professore di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni in diverse università italiane: Università degli Studi di Milano-Bicocca, la Cattolica di Milano, la G. D’Annunzio di Chieti-Pescara, nonché Amministratore Delegato di Telema, società che opera nella selezione e nell’Executive Search e in altri servizi di assessement e di coaching.
Qual è il macro-scenario economico e sociale in cui si inserisce la crisi provocata dalla pandemia?
Le evoluzioni tecniche e i processi tecnologici in atto sono il fattore chiave per capire i cambiamenti in corso nel mondo del lavoro. Stiamo vivendo un macro-processo in rapida evoluzione che ovviamente induce e indurrà cambiamenti socio-ambientali consistenti. Come noto le innovazioni tecniche influenzano profondamente e cambiano gli assetti sociali e gli aspetti specifici che rimandano al lavoro. Pensiamo alle grandi innovazioni del passato nella chimica, nella siderurgia, nella meccanica che, dallo sviluppo del big business delle ferrovie, hanno cambiato la quotidianità, le città e nello specifico le condizioni lavorative. L‘industrializzazione portò i lavoratori americani a ridurre l’orario da 60 a 48 ore alla settimana (cioè 8 ore per sei giorni), e poi a 40 ore. È un processo che si ripete: alla fine dell’Ottocento un collaboratore che lavorava 60 ore passava a lavorarne 40, allora il problema si risolse riducendo l’orario e stabilizzandolo.
Questi passaggi si protrassero per alcuni decenni dalla prima volta nell’Illinois nel 1867, e poi nei decenni successivi e infine ancora decenni dopo, per arrivare all’attuale assetto ormai spesso formale delle 40 ore settimanali.
Quindi la storia si ripete?
Il sistema giuridico e normativo è di solito più “lento” dell’evoluzione tecnica. È un processo che si ripete non linearmente e quindi la consapevolezza sociale, del sistema politico e dello stesso mondo imprenditoriale e sindacale diventano i veri fattori vincenti necessari. Oggi la situazione “si risolve” destrutturando l’organizzazione tradizionale del lavoro. Ecco che mentre viene mantenuta la sacralità formale delle 40 ore in tanti settori fioriscono le partite IVA, i freelance, i lavoratori autonomi, le “nuove professionalità” a cui il sistema sociale non garantisce le vecchie dimensioni protettive, in una giungla sempre meno razionalizzabile. Siamo in una condizione dove l’evoluzione delle tecniche genera “scarti”, molti non saranno più necessari al sistema e molte persone verranno progressivamente emarginate. L’evoluzione tecnologica riduce l’occupazione ed in questo macro-scenario di fondo si inserisce l’arrivo della pandemia da Covid-19.
“Lavorare meno, lavorare tutti”, è questa la soluzione?
Lavorare meno, lavorare il più possibile tutti significa, nel contesto attuale, guadagnare meno. Forse solo così si può reggere l’equilibrio. Quando però questo avviene in modo non regolato, con le partite IVA e il lavoro nero, le persone senza tutele e il sistema, in una situazione emergenziale come quella attuale, rischiano di barcollare profondamente.
Quali saranno le conseguenze della pandemia sul mondo del lavoro?
Da un lato, il Covid-19 favorisce un’evoluzione tecnologica diffusa: accelera il processo di digitalizzazione di tante realtà come il cosiddetto smart working. Dall’altro lato, accelera il processo di morte di settori maturi e obsoleti, dove però allo stesso tempo, paradossalmente, vengono finanziate attività e categorie di lavori destinati a sparire. Siamo nel “limbo in questo caso doloroso” di un passaggio tecnologico in corso. Nel quale subentra il Covid-19 che, da una parte accelera il cambiamento, dall’altra lo attenua. Per ora in Italia è come se avessimo “messo una mascherina” e, a livello occupazionale, non abbiamo ancora visto gli effetti concreti della pandemia.
Che probabilmente saranno più evidenti quando cadrà il divieto di licenziare per le imprese. I licenziamenti daranno la possibilità alle aziende di liberarsi delle professionalità che oggi servono meno. Scaricando sulla comunità “l’inefficienza”. Con costi sociali molto alti, la collettività dovrà farsi carico di chi avrà perso il lavoro.
Su cosa dovrebbe puntare l’Italia per convertire l’inefficienza in valore?
Le persone che rimarranno senza lavoro saranno un costo per la comunità e la sfida sarà quella di ricollocarle. Credo che ogni realtà, privata o pubblica che sia, dovrebbe “accollarsi” un po’ di “inefficienza”. Pensiamo ad esempio alla nostra Pubblica Amministrazione, in cui difficilmente si licenzia: con la digitalizzazione dei processi, quanta gente diventerà “inutile”? La PA è come se fosse costretta all’inefficienza, l’alternativa sarebbe quella di licenziare tante persone. In una società che funziona, non è detto che tutti debbano essere efficientissimi. In Germania, ad esempio, non si licenzia: le persone si riconvertono. Quando invece il sistema è poco lungimirante, la comunità si ritrova a pagare prezzi alti sul piano sociale e individuale.
Il Reddito di Cittadinanza, al di là delle questioni politiche, in qualche modo aveva l’obiettivo di rispondere a bisogni sociali inequivocabili. Il nostro Paese, però, non ha investito per anni nei Centri per l’Impiego (come invece è avvenuto in Francia e Germania) e quindi il meccanismo non sta funzionando.
In termini micro-economici, qual è lo scenario che ci aspetta?
Lo sviluppo tecnologico favorisce l’occupazione imponente di figure giovani e di laureati in discipline compatibili. La domanda di personale qualificato è in aumento, il mercato del lavoro è sempre più bisognoso di nuove e qualificate competenze tecnico-scientifiche con particolare attenzione al “digitale”. Servono professioni più nuove e in rapida evoluzione; che spesso le aziende non hanno al proprio interno. Si verifica quindi un situazione paradossale: in questi anni a livello europeo si ipotizzano 2 milioni di nuovi posti di lavoro e 5 milioni di mestieri obsoleti o inutili. Come fare fronte a questi differenziali sono e saranno i veri problemi che ci attendono.